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L'arpagofito (artiglio del diavolo) come antiflogistico antireumatico.

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L’arpagofito è dato dalle radici secondarie di Harpagophytum procumbens e di H. zeyheri, Fam. Pedaliaceae (Harpagophytum, dal greco "apnayn" che vuol dire uncino, gancio che trattiene).
L’H. procumbens comprende due sottospecie: procumbens (Purch) de Candolle ex Meissner e transvaalense Ihlenfeldt e H. Hartmann; la seconda è diffusa nella provincia di Limpopo in Sud Africa, mentre la prima è diffusa nel nord del Sud Africa, in Namibia e Botswana.
L’H. zeyheri comprende tre sottospecie: schiffii Ihlenfeld e H. Hartmann, sublobatum (Engler) Ihlenfeld e H. Hartmann e zeyheri Decaisne.
Si tratta di piante perenni, rampicanti, tuberose, alte circa 2 m.
Il caule si sviluppa da un tubero primario, detto tubero madre; dal tubero primario partono delle radici (che danno luogo a diverse protuberanze dette tuberi secondari) lunghe circa 25 cm e larghe circa 6 cm. Dai germogli partono le foglie, opposte, lobate, di un colore blu-verde e fiori isolati, con una corolla tubulosa di colore lilla tendente al rosa.
I frutti, di consistenza legnosa, sono provvisti di escrescenze simili a robusti uncini, da cui il nome artiglio del diavolo.
La droga viene raccolta quando i tuberi secondari hanno raggiunto le giuste dimensioni, quindi tagliata a rotelle e immediatamente essiccata. Si presenta di colore marrone chiaro, inodore e di sapore amaro.
La presenza di radici primarie rappresenta una sofisticazione e pertanto riduce il valore commerciale della droga.
L’arpagofito è stato utilizzato per secoli dagli indigeni delle regioni sub-Sahariane come analgesico e antiflogistico, per trattare le complicazioni che si presentavano durante la gravidanza e per alleviare i dolori post-partum. È stato poi utilizzato per trattare malattie del sangue, dolori reumatici muscolo-scheletrici e sotto forma di unguento per curare distorsioni, piaghe, ulcere e malattie cutanee. Le
popolazioni San, Khoi e Bantu del sud-est dell’Africa utilizzano ancora l’arpagofito
per una serie di disturbi.
Anche se la pianta fu raccolta e descritta da ricercatori europei nel 1820, i potenziali terapeutici dell’arpagofito furono scoperti solo più tardi, nel 1907, da Mehnert, un coltivatore tedesco che viveva in Namibia.
Costui, venuto a conoscenza delle proprietà terapeutiche che questa droga vantava presso gli indigeni, incominciò a inviare campioni di arpagofito in Germania con l’intento di farla studiare da un punto di vista chimico e farmacologico.
Zorn, dell’Università di Jena, fu il primo a studiarne le proprietà antiflogistiche; grazie a questi studi l’arpagofito verrà utilizzato di lì a poco nell’artrite reumatoide e nell’osteoartrite, oltre che per combattere tendinite, mal di testa, lombalgia, dolori mestruali.
Inizialmente fu utilizzato un infuso e solo successivamente si ricorse a una tintura e all’estratto secco.
Le specie di Harpagophytum sono state riportate nella Farmacopea Europea e incluse nella monografie ESCOP e indicate per il trattamento dei dolori artrosici, nei casi di tendinite, perdita di appetito, dispepsie e come terapia di supporto nei disordini degenerativi del sistema locomotore.

L’arpagofito contiene glicosidi iridoidi (3%) come arpagoside, procumbide, arpagide e 8–para– cumaroil–arpagide; carboidrati (stachiosio, raffinosio, ecc.); flavonoidi (kaempferolo, luteolina, ecc.); acidi organici (caffeico, clorogenico, cinnamico ecc.); fitosteroli (..-sitosterolo, stigmasterolo, ecc.); triterpeni (acido ursolico, oceanico, ecc.) e poi acteoside, arpagochinone ecc.
La sostanza responsabile dell’azione terapeutica dell’arpagofito è a tutt’oggi sconosciuta e l’arpagoside viene considerato un marker analitico, anche se è stato osservato che più è alta la sua concentrazione e più risulta attivo il preparato.
Alcune malattie del tessuto connettivo provocano un’infiammazione articolare piuttosto seria. Queste malattie comprendono l’artrite reumatoide, l’artrite psoriasica, l’artrite reattiva o sindrome di Reiter e la spondilite anchilosante.

L’artrite reumatoide (AR) colpisce circa l’1% della popolazione, si manifesta soprattutto tra i 25 e i 50 anni di età e interessa più le donne che gli uomini (di 2–3 volte).
Le cause della malattia non sono ancora del tutto note.
È considerata una malattia autoimmune e quindi si ritiene che le componenti del sistema immunitario attacchino le parti molli che ricoprono le articolazioni.
Con il passare del tempo la cartilagine, l’osso e i legamenti delle articolazioni risultano erosi e questo comporta deformità, instabilità e formazione di tessuto cicatriziale all’interno dell’articolazione.
Le articolazioni infiammate si presentano rigide al momento di alzarsi al mattino per almeno 30 min. e dopo un lungo periodo di inattività tendono a bloccarsi in una posizione al punto di non potersi flettere o estendere completamente.
Nel 90% dei soggetti con AR la velocità di sedimentazione (VES), esame che misura la velocità con cui i globuli rossi si depositano sul fondo di una provetta contenente sangue, aumenta e questo indica la presenza di un’infiammazione in atto. Così pure nel 70% dei soggetti con AR è presente il fattore reumatoide (anticorpi caratteristici nel sangue); inoltre è presente una lieve anemia.
La patologia articolare più frequente è comunque l’artrosi, detta in passato artrite degenerativa.
Si tratta di una malattia cronica della cartilagine articolare e dei tessuti circostanti, caratterizzata da dolore, rigidità e deficit funzionale. Le donne di età compresa tra i 40 e i 70 anni hanno maggiore probabilità di sviluppare l’artrosi.
Dopo i 70 anni la patologia si sviluppa in egual misura sia nelle donne che nell’uomo.
L’artrosi con ogni probabilità inizia con un’alterazione delle cellule che sintetizzano il collagene e i proteoglicani (i componenti della cartilagine). Successivamente la cartilagine tende a trattenere i liquidi, si gonfia e si lacera in superficie diventando ruvida e scavata.
L’osso può a sua volta svilupparsi oltre ogni misura ai margini dell’articolazione dando luogo a sporgenti visibili e palpabili.
Anche le altre componenti dell’articolazione e cioè la capsula articolare, il tessuto sinoviale, i tendini e i legamenti possono indebolirsi con conseguente alterazione articolare.
L’AR è una malattia che difficilmente regredisce spontaneamente.
Il riposo e una dieta ricca di pesce e di oli vegetali, ma povera di carni rosse, possono giovare al paziente con AR.
Lo stretching e l’esercizio posturale aiuteranno invece a migliorare lo stato di salute della cartilagine e l’ampiezza di movimenti articolari nei casi di artrosi.

Comunque, per alleviare i sintomi e rallentare la progressione di queste malattie, si ricorre ai farmaci antinfiammatori non steroidei (per es. paracetamolo), ai farmaci ad azione lenta (sali d’oro, pennicillamina, sulfasalazina), ai corticosteroidi, agli immunosoppressori (metotrexate, azatioprina, ciclofosfamide, ciclosporina).
La terapia farmacologica presenta dei benefici, ma anche dei rischi.
Questo ha portato in anni recenti a riesaminare l’efficacia dei prodotti vegetali sia in campo sperimentale che clinico.
Risultati incoraggianti si sono ottenuti con l’arpagofito.
Alcuni studi clinici considerati di “alta qualità”, in quanto soddisfano più del 50% dei criteri di qualità metodologica, sono stati analizzati in due revisioni sistematiche e i risultati ottenuti consentono di affermare che l’arpagofito allevia il dolore e migliora l’infiammazione muscolare e la mobilità delle articolazioni nei casi di lombalgia, artrosi del ginocchio e dell’anca e in altre patologie artritiche.


- Liberamente tratto da L'erborista di Febbraio 08 -

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